Tutto diverrà luce e l’icona rivelerà se stessa.
Secondo la teologia ortodossa, l’icona é opera divina. Il suo senso è in ciò che da sempre rappresenta. L’artista è soltanto un mezzo di comunicazione, la mano di Dio. L’icona è un libro scritto e che va letto. Un immutabile e silenzioso racconto indirizzato ai credenti, ma non soltanto. Per questo la prospettiva nelle icone è rovesciata: le linee paiono convergere in un punto di fronte al dipinto, lo spazio pittorico va verso lo spettatore. “E’ il dipinto che entra in te: il fedele non guarda nell’icona, la ascolta”.
L’icona si rivolge all’interiorità, induce una riflessione su se stessi, sulle virtù da esercitare per raggiungere Dio. E’ la definizione dell’ascesi, atteggiamento spirituale alle radici dell’ortodossia russa. Niente ombre, niente profondità. I volti sono trasfigurati, fuori dal tempo. Le immagini dei santi sono solo spirituali. Nell’accezione più ampia del termine, l’icona è un’opera astratta. “Con Giotto e la prospettiva l’arte occidentale ha scelto un modello esteticamente perfetto. L’arte russa ha sempre preferito la luce interiore e la verità etica. Rinascimento e Umanesimo la Russia li ha scavalcati; i primi ritratti mondani sono posteriori al 1650. Arretratezza culturale? Superiorità morale rispetto all’Occidente decadente e corrotto, secondo un concetto connaturato all’ortodossia e ancora ben presente nella memoria storica dei russi.
Nell’icona il pittore segue i canoni ed evita l’arbitrio. Non per questo soffoca la sua individualità, che emerge sempre: è arte, oltre che rappresentazione sacra. L’icona è opera di un individuo, ma frutto di un’esperienza e di una coscienza comuni. Ti deve far sentire parte di un tutto. Quest’arte che ha accompagnato mille anni di ortodossia russa esprime gli ideali spirituali di un intero popolo, nei quali la cultura nazionale, anche nella sua componente laica, tuttora si identifica.
Gli ortodossi russi pregano a occhi aperti, davanti a un’icona. E all’icona si confessano, alla presenza di un pope. Non è un oggetto decorativo. E’ la porta per entrare nella dimensione del sacro. “L’azione in atto davanti ai nostri occhi è al di fuori delle leggi dell’esistenza terrestre”.
Nelle chiese non ci sono panche, i fedeli si muovono di continuo. Vanno da un’icona all’altra per bruschi inchini e segni della croce. Mentre qualcuno fa la comunione, altri provano un coro e un pope va avanti con la messa. Anton Chechov descrive l’atmosfera nel suo racconto del 1866 “Notte di Pasqua”: la messa sembra un mercato pieno di gente in preda a “una continua, inconscia, infantile allegrezza”.
Nelle celebrazioni della Pasqua, la festività più importante per i russi, le affinità della liturgia con i riti pagani di inizio primavera sono più evidenti che altrove. Il triplice bacio che ci si scambia alla mezzanotte e poi per tutta la domenica dicendo “Christos voskrese”, cioè “Cristo è risorto”, non è altro che un gesto di augurio e di speranza dopo l’inverno. La benedizione delle icone portate di casa in casa il lunedì dell’Angelo è un rito comunitario che – sotto altre forme – esisteva da millenni. La Chiesa ortodossa russa si riconosce completamente nella sua liturgia popolare, eredità pagane comprese. L’approccio al mistero divino è antirazionalistico. La mente umana non è in grado di comprenderlo. Solo la trascendenza spirituale permette di avvicinarvisi. Le icone sono il compendio e il fulcro di questa liturgia, di una visione mistica e non razionale della religiosità e della vita.
Con l’antirazionalismo religioso dell’ortodossia “riassunto” nelle icone si trovò in sintonia la sensibilità romantica dei giganti della letteratura ottocentesca e degli esponenti del movimento slavofilo. Gogol’, Dostoevsky, Tolstoy, Turgenev, il filosofo Vasily Rozanov e molti altri si recarono in pellegrinaggio ai santuari dei mistici ortodosso per cercare “l’anima russa”. In particolare il monastero di Optina Pustyn’, nella regione di Kaluga – circa 200 chilometri da Mosca – diventò il centro spirituale della coscienza nazionale.