La tragica fine
« Tutto passa, ma tutto rimane. Questa è la mia sensazione più profonda: che niente si perde completamente, niente svanisce, ma si conserva in qualche modo e da qualche parte. Ciò che ha valore rimane, anche se noi cessiamo di percepirlo. »
(Pavel Aleksandrovič Florenskij, Non dimenticatemi, 1933-1937)
Il 26 febbraio del 1933 Florenskij viene condotto agli arresti, condannato a dieci anni di gulag e più tardi trasferito in un campo di prigionia presso le isole Solovki, nel Mar Bianco. Qui, al posto di un antico monastero, era stato eretto il primo campo di detenzione e “rieducazione” comunista.
Continua a portare avanti le ricerche di sempre, provato ma instancabile, come quelle sul gelo perpetuo o sull’estrazione dello iodio. Realizza alcune scoperte scientifiche, come quella identificata nella produzione di un liquido anticongelante. Continua a scrivere, due o tre volte al mese secondo i permessi, lettere appassionate e struggenti ai familiari, alla moglie, alla madre e ai figli.
Il filosofo del simbolo e dello sguardo, della discontinuità e del ritmo, viene inghiottito dal totalitarismo: le autorità comunicano la data ufficiale della sua morte, il 15 dicembre del 1943, poi rettificata alla stessa famiglia solo agli albori dei primi anni novanta. Passando per la caduta definitiva dell’Unione Sovietica, il fascicolo del KGB relativo al suo caso mostrò lo svolgimento della vicenda: Pavel Alksandrovič Florenskij venne fucilato l’8 dicembre del 1937, nei pressi di Leningrado, nello stesso anno in cui il fratello Aleksandr veniva arrestato, condannato a cinque anni di lavori forzati per andare a morire nell’ospedale del lager di Berelech l’anno successivo. Venne fucilato dopo anni di detenzione nel campo delle Solovki, in tempi in cui il numero degli individui sottoposti dal regime a una condizione simile, in luoghi e in modi diversi, raggiungeva la soglia dei due milioni nell’intero territorio dell’Unione Sovietica. Il rinvenimento nel cuore del bosco di Sandormoch, sessant’anni più tardi, di alcune fosse comuni, potrebbe nascondere e celare per sempre le stesse spoglie di Pavel Florenskij. Già emblematica è una delle leggende, poco credibili seppure altamente significative, sorte intorno alla dinamica della sua scomparsa: avendo oltrepassato, immerso nei suoi pensieri, il limite invalicabile della recinzione del lager, sarebbe stato fucilato da una guardia all’istante.
Durante gli ultimi decenni del XX secolo sono circolate voci, poi rivelatesi infondate, circa la glorificazione di Pavel da parte della Chiesa ortodossa russa fuori dalla Russia come santo e martire. Tuttavia l’allora Metropolita Vitalij negò recisamente che alcuna canonizzazione fosse stata operata, né fosse prossima ad operarsi, da parte della ROCOR.
Il pensiero
Da quel dicembre del 1937 alla metà degli anni ottanta il nome di Florenskij era stato completamente cancellato, rimosso dalla coscienza pubblica del paese, sebbene sempre gelosamente custodito nella memoria viva di pochi discepoli, amici e familiari. Figura davvero geniale della storia del pensiero umano, dietro la sua apparenza sobria e dimessa, sotto le sue tonache ruvide e lise, custodiva una grandezza della quale ancora soltanto in parte possiamo intuire la portata.
Il pensiero di Florenskij deve essere necessariamente collocato nel contesto che caratterizza il mondo russo nel passaggio dal XIX secolo al XX secolo. La sua produzione (per avvicendamento, vicinanza o disaffezione) è perfettamente incardinata nel tempo di rinascita spirituale e culturale della Russia, al fiorire dei dibattiti imperanti nei salotti dell’intelligenzia filosofica.
Florenskij interviene nella riflessione epocale intorno ai concetti e alle conseguenze del dogmatismo, della dogmatica, dell’ortodossia, proponendosi talvolta secondo i termini di un indiretto dialogo con Lev Nikolaevič Tolstoj. La concezione dello spazio e la concezione del tempo (in sintonia con una sensibilità filosofica perfettamente pertinente ai primordi del ‘900) emergono dalle sue pagine passando attraverso una differenziazione delle spazialità, per una profonda critica mossa senza remore alla geometria euclidea che, per altri versi, riemerge come critica alla concezione prospettica lineare. Sul terreno strettamente filosofico, più che teologico o spirituale, Florenskij inaugura una filosofia del ritmo coinvolta dall’emergere di un pensiero cinematografico, dalla riflessione sul tragico inteso, più tardi, in stretta relazione con la kenosis; una filosofia coinvolta nella definitiva ridefinizione del simbolo quale vetta dell’incontro tra Dio e il mondo, visibile e invisibile, tra cielo e terra.
Nel rapporto tra realtà terrena e realtà ultraterrena, il sogno per Florenskij è titolare di un ruolo significativo: favorendo l’acquisizione di una nuova misura dello spazio e del tempo, nell’immaginario, si presenta come una condizione comunemente accessibile che permette il contatto con l’invisibile oltre la stessa realtà terrena.
Nei suoi ultimi anni di libertà Pavel Florenskij compose la sua stupenda estetica. La premessa è l’idea einsteniana di spazio. Florenskij si curva sul concetto di «cosa» e la definisce come «corrugamento» o «luogo di curvatura» dello spazio.
Quella di Florenskij è un’estetica nata sul ciglio della voragine, dopo di essa l’arte sarebbe sparita, sostituita da esposizioni di sterco, balbettii, installazioni.
La filosofia del linguaggio di Florenskij si muove verso una definizione della parola profetica, che è parola transustanziata e definitivamente svincolata dalla mera chiacchiera. La concezione estetica florenskijana, riflessione dove l’arte diviene rapporto con le quattro coordinate dello spazio (che suggella la distanza della grafica dalla pittura, come del volto dal profilo) si inserisce nel retroterra teologico sotteso dalla riflessione su antropodicea e teodicea.
Emerge nelle pagine del filosofo una complessa, completa ed elaborata filosofia dell’icona, che costituisce uno dei passi fondamentali della sua riflessione sullo sguardo, anch’essa a un tempo tipicamente novecentesca, pur sempre figlia dei maestri antichi e del retroterra spirituale della Russia.
Florenskij riflette sulla natura della dialettica, senza stasi, in modi differenti e nell’intero movimento del suo percorso creativo. Il pensiero dialettico si propone come il mezzo (lecito) per penetrare il cuore della realtà. La conoscenza, quale cammino, viene orientata alle radici della concretezza (secondo i termini originali di una metafisica concreta) che attira il pensiero a sé. La dialettica si “incarna” nel pensiero platonico: del resto l’incontro tra ragione e realtà genera stupore, base del filosofare di Platone e dei maestri antichi. La risposta che la realtà concede alla ragione che interroga produce allora l’avvitarsi di nuove domande “stupite”, e ancora nuove risposte che generano stupore, in un confronto che in ultima istanza mai smette di approfondirsi. Le risposte della realtà, allora, sono i nomi, come sottolinea Florenskij nel suo Amleto (1905): ma i nomi sono l’idea.
« Se la specifica situazione di Amleto è da ritenersi eccezionale, la natura anfibia dell’uomo, che riflette il fatto di abitare lo spazio intermedio tra mondo visibile e mondo invisibile, e che per questo esprime da un lato una vita interiore estremamente intensa, dall’altro, la realtà terrena e l’esperienza quotidiana, rende tutt’altro che anomalo e infrequente lo stato di articolazione e di diversificazione interna (se non di vera e propria scissione) della personalità e della coscienza. La lacerazione del creato, la contrapposizione della natura spirituale dell’uomo alla natura, si ritrova nella divisione della pittura in paesaggio e ritratto, e nella tendenza dell’icona a concentrarsi sul solo volto astratto da tutto il mondo, mera espressività, puro sguardo rivolto verso l’altro. »
Non a caso queste idee prendono una duttile forma nella sua concezione complessiva del cristianesimo: “Il cristianesimo non vive di concetti fissi e intangibili, ma si manifesta in un processo evolutivo che non è riducibile ad alcuna delle formule (riti sacramentali, formulazioni dogmatiche, regole canoniche, conformazione temporale dell’ordinamento ecclesiastico) che l’ecclesialità assume nel corso della storia”
(fine)